Di Roberta Reina per Aspergerpride.it
Mi è stato diagnosticato l’autismo in età adulta e con esso mi e stata anche diagnosticata l’alessitimia, ossia: la mancanza di parole per esprimere le emozioni.
Il termine alessitimia deriva dal greco: a- mancanza, lexis parola e thymos emozione.
Essa non consiste diversamente da quanto sostenuto da molti nella mancanza di emozioni, ma nell’incapacità e l’impossibilità di dar voce alle stesse.
Questo mi ha portato a porgermi delle domande alle quali vorrei dare risposta in questo articolo.
È questa una conseguenza del soffocare e zittire le mie emozioni per un’infanzia ed un’adolescenza intera?
Qual è la concreta possibilità dei soggetti autistici di dar voce alla propria esperienza?
Vorrei inoltre porre l’attenzione sulla distanza che intercorre tra esperienza neurotipica ed autistica e quanto questa si riversi sul linguaggio.
Ho cercato quindi di capire se il mio frequente non trovare le parole e/o non riuscire a dare un nome alle emozioni non fosse la conseguenza di una mancata narrazione autistica.
L’autismo viene definito come un disturbo pervasivo dello sviluppo che intacca le aree del linguaggio e della comunicazione e si esprime in comportamenti ripetitivi, che possono essere individuati per esempio sotto forma di auto-stimolazioni (stimming) o di iper-attività fisica e/o mentale (eccesso di pensiero). Ha radici neuro-biologiche, ciò significa che investe ogni aspetto della vita di un individuo, per tanto preferisco, come molti altri membri della comunità autistica, parlarne come un modo di stare al mondo, che si discosta nettamente da quello tipico.
Gli studi autoptici di Paul Broca, risalenti alla seconda metà dell’ottocento, furono tra i primi a confermare la relazione tra pensiero e linguaggio. Gli studi infatti permettevano il collegamento tra disturbo del linguaggio e lesione di un’area cerebrale, quella di Broca, appunto.
L’autismo infatti comporta un diverso modo di sentire se stessi e l’ambiente circostante. Una delle differenze interessa il sistema emotivo: i neurotipici hanno un ventaglio di emozioni che comprende al suo interno diverse gradazioni di emozioni; quello autistico, invece, è dicotomico.
Una persona nello spettro dell’autismo si troverà a dover esprimere le proprie emozioni disponendo di parole che significano emozioni diverse dalle proprie, e probabilmente per alcune non troverà parole.
Prima della diagnosi, emozioni come quelle dei meltdown o degli shutdown, non avevano posto nel mio orizzonte esperienziale e di consapevolezza, eppure c’erano. Tuttavia non riuscivo a nominarle, identificarle, né a riconoscerle, questo avveniva perché esperienze simili sono caratteristiche della vita autistica, e non neurotipica.
Il linguaggio si aggancia alla realtà per via di un processo di generalizzazione e astrazione: la concettualizzazione. Allo stesso modo, per il filosofo analitico Wittgenstein, il linguaggio è mediatore della costruzione della realtà, costituito da un sistema simbolico che ha origine in artefatti umani, esso è ciò su cui si fonda una comunicazione dotata di senso e fornisce molteplici interpretazioni della realtà.
Ciò che le parole non sanno dire, l’occhio non sa vedere […] Noi tagliamo a pezzi la natura, la organizziamo in concetti, e nel farlo vi attribuiamo significati. – Benjamin Whorf
Con il termine linguaggio si fa riferimento alla facoltà o all’architettura cognitiva che permette all’uomo la condivisione di informazioni, esperienze e credenze attraverso l’utilizzo di un codice, ovvero la lingua. Se si vuol parlare di comunicazione verbale, dunque, sembra necessario fare appello sia alla dimensione puramente culturale, che alla struttura neurologica. E’ in essa infatti che si esplica una relazione di reciproca influenza tra pensiero, linguaggio e realtà.
Per quanto riguarda la seconda interdipendenza, linguaggio-realtà, secondo Benjamin Whorf e Edward Sapir il linguaggio costituisce la categorizzazione secondo cui analizziamo il mondo circostante, il linguaggio acquisisce quindi funzione discriminante. Ciò vuol dire che il nostro ventaglio esperienziale comprenderà esclusivamente fatti di cui saremo capaci di parlare, i restanti verranno progressivamente tagliati fuori.
Oggi per le neuroscienze il linguaggio costituisce una delle funzioni cognitive superiori, tra loro interconnesse e non solo: le neuroscienze studiano la funzione del linguaggio, prendendo in considerazione lo scambio tra ambiente e soggetto, ovvero lo scambio di input e output, aprendo così la possibilità di un ponte tra psicolinguistica e biologia. La psicolinguistica individua nell’apprendimento e l’utilizzo della comunicazione verbale diverse varianti, tra cui quelle interne (o intrinseche) all’individuo, ossia caratteristiche a livello neurologico come le strategie di apprendimento e lo stile cognitivo.
Stiamo partecipando ad un esperimento vivente di formazione concettuale come ne accadono molto raramente. – Ian Hacking
Il discorso sull’autismo è stato formulato da persone non autistiche, attraverso l’interpretazione dell’esperienza autistica secondo schemi linguistici e comportamentali neurotipici, conducendo alla creazione di falsi miti e stereotipi che poco aderiscono alla realtà. Solo recentemente l’autismo ha iniziato a trovar voce da parte delle varianti sub-cliniche dello spettro, attraverso le testimonianze prende forma un linguaggio in un campo in cui non c’era nessun linguaggio cinquant’anni fa.
Ho avuto modo di affacciarmi a quel mondo che appartiene ai genitori dei nostri fratelli di spettro autistico a variante severa e con bisogno di supporto intensivo.
Ho potuto constatare la difficoltà da parte dei primi nel collocare all’interno di schemi comportamentali neurotipici i comportamenti del figlio.
Sono giunta alla dolorosa conclusione che l’esperienza autistica non avesse significato proprio.
Ho potuto toccare con mano il vuoto semantico che avvolge e affonda nel silenzio l’esperienza autistica.
In tal contesto la figura della self-advocacy ricopre una funzione considerevole. Nella formulazione di un discorso sull’autismo si concretizza il dar rappresentanza e voce a chi non ne ha, ed esso trova ragione d’esistere nell’unione dell’intero spettro autistico.
E se l’uomo si approccia alla realtà per categorizzazioni linguistiche, come sostenuto da Whorf e Sapir, all’emergere di un orizzonte concettuale dell’esperienza autistica seguirebbe il portar alla luce della stessa, al fine di raggiungere un’inclusione che passi per la strutturazione e l’integrazione di un linguaggio autistico, che permetta l’accoglimento di un nuovo complesso semantico, che porti a sua volta al riconoscimento dell’unicità e della diversità dell’esperienza autistica.